Una breve escursione al monte Panico da Forca d'Acero.

Un bosco magico, una cresta intigante e un panorama sul parco da far girare la testa!


Una breve, brevissima escursione molto appagante quella di oggi; conoscevamo già il territorio, le linee di salita, i panorami e quindi quello che ci aspettava, la cosa strana è che è nata un po’ per caso, semplicemente non dovevamo essere lì in questo Sabato dal meteo imprevedibile. Avevamo messo in programma una due giorni in terra Matese, un po’ di montagna sul Miletto e magari sul monte Gallinola ed un po’ di turismo culturale/gastronomico in terra molisana, ma più si avvicinava il week end e più le previsioni meteo mettevano al peggio; dal variabile spinto alla neve certa, due siti su tre ci castigavano, ovviamente abbiamo rinunciato. Improvvisando all’ultimo momento abbiamo deciso di provare a raggiungere il monte Serrone dal Lazio, partendo dalla località Valle del Rio, sulla strada che da Sora raggiunge Forca d’Acero, praticamente l’imbocco della lunga valle Carbonara prima e Capo d’Acqua poi. Arrivati comodamente sul posto, nonostante le previsioni meteo fossero ugualmente molto incerte, abbiamo trovato un cielo quasi pulito e le condizioni ottimali per poter sperare in una bella escursione baciati dal sole, anche se pallido. La dorsale a sinistra della valle era carica di neve, la sterrata si alzava da fondo valle libera e pulita ma dopo soli trecento metri di dislivello si sarebbe inoltrata su un terreno innevato, in quelle condizioni che non capisci bene se avresti trovato vita facile o se ti andavi a cacciare in una sorta di purgatorio tra melma e neve sporca. Più in alto sicuramente avremmo trovato tanta neve ma qualcosa non ci piaceva, forse il Serrone ci è sembrato lontano o forse è stato il sentiero che ad un certo punto finendo e lasciando posto all’invenzione non ci ha dato certezze, non so cosa, ma improvvisamente la meta non ci ha più dato l’entusiasmo della sera prima. Ho proposto di provare a salire a Forca d’Acero, sicuramente avremmo trovato la stessa neve che c’era in cima alla dorsale ma ci saremmo imbattuti in ambienti più suggestivi, in panorami più ampi al cospetto di grandi montagne. Inutile dire che così è stato. L’unico posto agibile per parcheggiare era il valico di Forca d’Acero, muri di neve alti anche 2 metri facevano da trincea già ai primi tornanti; non era nemmeno semplice oltrepassarli ripidi come erano. Per trovare un varco abbiamo dovuto percorrere a piedi un tratto di strada che scende verso Opi, un cartello mezzo sepolto dalla neve è servito per aiutarci a salire, solo sopra il muro abbiamo potuto indossare le ciaspole, un inizio all’insegna della conquista. Nel silenzio assoluto, si sono contate su una mano le auto che transitavano, ci siamo inoltrati nel bosco immobile e carico della neve che era venuta giù abbondantissima pochi giorni prima. Il sole radente creava un gioco di ombre che moltiplicava le presenze longilinee dei faggi, ovviamente non esistevano tracce di sentiero ed anche i pochi segnali stampati sugli alberi erano quasi totalmente sepolti; tra le fronde, verso Sud-Est compariva ogni tanto la cresta dell’anticima del monte Panico che avremmo dovuto raggiungere, il vedo e non vedo tra i rami la faceva sembrare più alta e più ripida di quello che non fosse in realtà, per ora ci serviva per guidarci nella giusta direzione. Tra piccoli fossi che si confondevano nelle curve del manto innevato e piccole dorsali cercavamo di scegliere le linee migliori per trovare il fondo più solido, i caldi raggi del sole non avevano fatto effetto desiderato ed era un bel galleggiare a stento sulla neve più che molle. Non si può non parlare della bellezza del bosco, faggi diritti e puliti, neve sui rami a formare miriadi di ricami, i raggi del sole radente e silenzio, tanto silenzio interrotto solo dal nostro ciaspolare, quei momenti che sogni e che speri di poter vivere ad ogni inverno; aveva nevicato da qualche giorno ma forse l’assenza del vento insieme al freddo avevano fatto in modo che gli alberi fossero ancora stracarichi come se avesse nevicato la sera prima, dopo una mezz’ora di quest’ambiente, salendo leggermente e costantemente intuiamo le prime radure, anche la dorsale e il costone dell’anticima del mt Panico si stanno facendo più evidenti e incutono meno pressione. Mai una valle per rifiatare, sempre in salita sprofondando nella neve molle, si continua in una lingua di bosco molto rado, puntiamo l’anfiteatro sotto l’anticima, una tavola candida e lucente contro luce, un pendio attraente che sale sempre più ripido fino alle cornici di cresta ora ben intuibili. Lenti ma saliamo, tra le geometrie invernali degli alberi, la suggestione delle cornici in cresta, la fatica bestiale dovuta alla neve non consolidata e i grandi panorami che si aprono dietro di noi, Marina è costante, quasi maniacale, in formissima, lenta, un passo inesorabile davanti all’altro è sopra di me a battere la pista, io mi fermo a rubare scatti che spero essere magici come lo sono le immagini che mi rapiscono; ci confrontiamo da lontano per scegliere la traiettoria migliore, la pendenza meno famelica. Ancora un po’ lontani scegliamo il punto di attacco alla cresta, dove le cornici sembrano più sottili, di conseguenza adeguiamo la traiettoria, ci sembra di scorgere una piccola dorsale che taglia verso destra l’anfiteatro, ci sembra una linea più morbida per raggiungere la cresta ma è solo illusione, quando ci arriviamo è solo una effimera sensazione di ombre su pendio. Non rimane che arrendersi e affrontare gli ultimi cinquanta metri in verticale, puntando al punto più “debole” della cornice. Marina mi lascia la guida, delle cornici si è sempre fidata molto poco e in più il pendio si inclina via via che ci si avvicina alla cresta, le ciaspole con la pendenza non reggono più, la posizione è scomoda ma vanno tolte, mi scavo una piazzola e compio questo gesto faticoso, alla meglio le aggancio allo zaino. Inutili anche i ramponi, ancora si affonda di buoni trenta centimetri nonostante il pendio. Insomma un po’ imprecando ed un po’ “nuotando” salgo lento, comincio a pensare che se più in alto, dove la pendenza è maggiore, la neve continuasse ad essere così cedevole, non riuscirei sicuramente a passare, mi troverei un muro friabile davanti. Mi volto per dire le mie titubanze a Marina ed un suo “nooooo” deluso mi da tutta la carica per continuare, ravano ancora per qualche metro con la neve alle ginocchia poi in pochi passi cambia tutto, lo scarpone si infila e crea una bel gradino, inaspettatamente il fondo di si fa compatto, occorre pure calciare forte per creare la cruna di appoggio, salgo più sicuro nonostante la pendenza continui ad aumentare, quasi servirebbe la piccozza ma in quella posizione non mi va di togliermi di nuovo lo zaino per altre manovre al limite dell’equilibrio. Giro i bastoncini e li uso dalla parte dell’impugnatura, spingendo riesco a farli entrare quello che basta per sostenermici, una favola, volo, e sono a superare la cornice nel punto esatto che avevamo previsto, tutto facile. Tocca a Marina. In basso, ripercorre le mie orme, quando la pendenza aumenta, lei con le gambe più corte fatica un po’ ad uscire dalle profonde buche, poi quando trova il fondo più duro gradina sicura e usa anche lei i bastoncini dalla parte dell’impugnatura, porca miseria a vederla approcciare la cornice dall’alto si ha la sensazione che stia affrontando un muro, che stia salendo una scala. Uno non ci pensa mai, ma se scivoli da lì ti ritrovi cento metri più in basso che nemmeno hai il tempo di pensarci. Comunque, siamo tutti e due sopra, ora è solo ulteriore salita e cresta ampia, anche se in alcuni momenti i pendii sono ripidi in entrambi i versanti. Sopra di noi l’irta salita fino a quota 1855 mt. da dove si inizia a scorgere un panorama superbo sul parco, ma ancora parzialmente coperto dalla vera anticima poche centinaia di metri più in là e dopo una pronunciata sella. Scendiamo e risaliamo la vera anticima del Panico da dove davvero lo sguardo deve solo sbizzarrirsi e stancarsi nel cercare e distinguere le decine e decine di vette e creste che abbiamo davanti e tutto attorno. E’ superba con le sue cornici che sfidano la gravità la sinuosa cresta fino al monte San Nicola, è intrigante la piramide bianca della cima di Serra Matarazzo, è un miraggio il monte Irto laggiù in fondo, piccola prominenza in faccia ai Tre Mortari che vado vagheggiando da tanto tempo e che è ormai nel mirino per la prossima primavera; e a sfondo di tutte questa miriade di vette la lunga catena del Petroso, catalizzante e proibita bellezza di tutte le nostre fantasie montanare. Verso Nord-Ovest in primo piano, un attimo prima che la coltre scura delle nubi offuscasse tutto, la grande piana di Pescasseroli e il Marsicano che nasconde a malapena la lunga cresta di Rocca Chiarano che preannuncia il Greco ancora più a Sud-Est. Ci fermiamo in vetta per bei venti minuti mai sazi di un vista così ampia e appagante. E’ il fronte della perturbazione annunciata che avanza senza pietà a farci muovere e a darci indicazione che era meglio ritornare sui nostri passi; tra le tante incertezze del meteo l’indicazione generica era che nel pomeriggio ci sarebbe stato un forte peggioramento e forse anche con leggero anticipo il cielo si è incupito ed il sole è sparito lasciando il posto alla brezza che da leggera e piacevole è diventata leggera e pungente. Non è stato il freddo a consigliarci di tornare indietro ma il rischio annunciato di nevicate. La lunga cresta fino al San Nicola chiamava ma potevamo dirci soddisfatti di quanto avevamo preso, per quieto vivere e un po’ per pigrizia siamo tornati indietro per i nostri passi. Scendiamo e risaliamo fino al punto in cui siamo usciti in cresta, il lungo paginone bianco e il primo tratto molto ripido non consigliavano di scendere per la stessa via di salita, abbiamo continuato per cresta verso Nord. La linea di discesa era ovvia, sulla dorsale fino al bosco per poi virare verso Est, verso il valico di Forca d’Acero o fino ad intercettare il nastro di asfalto della strada. Un tratto di dorsale ripido, abbiamo trovato anche dei tratti ghiacciati che abbiamo dovuto aggirare, avvicinandoci al bosco abbiamo cominciato a sprofondare di nuovo fin sopra il ginocchio, il rientro si preannunciava faticoso. Piuttosto che avventurarci nel bosco tra sali e scendi, avvallamenti e fossi alla ricerca della nostra meta, abbiamo deciso all’ultimo momento di costeggiare il bosco e cercare di ritornare dentro il catino dell’anticima per ritrovare la nostra traccia, eravamo scesi di quota e probabilmente avevamo davanti non più che un traverso di un due-trecento metri, forse anche meno. Sono stati i trecento metri più belli di sempre, le ciaspole in mano, tanto era inutile e controproducente tenerle ai piedi, in un bosco intricato, ripido, sepolto di neve, ogni ramo che toccavi ti grondava addosso grossi sbuffi nevosi, ogni tanto sprofondavamo fino alla cintola, Era divertente, da spasso e i sorrisi che avevamo stampato in faccia erano lo specchio di come stavamo. Tra momenti più intricati e altri meno, il traverso sempre in leggera discesa non doveva essere ancora troppo lungo, eppure per quanta neve c’era sugli alberi non se ne vedeva la fine, ogni tanto un po’ di luce tra gli alberi faceva pensare all’uscita ma era solo uno slargo un po’ più ampio, finche’ non siamo davvero usciti; prima il bosco si è diradato, poi hanno cominciato a formarsi dei piccoli viali diritti, sembravano sentieri quasi, poi abbiamo scorto l’anfiteatro sotto la cresta, e infine le nostre tracce. Missione compiuta, quasi ci dispiaceva uscire da quel labirinto bianco. Rimesse le ciaspole abbiamo seguito le nostre tracce della mattina, senza più impegno e nemmeno pensieri per cercare la direzione ci siamo goduti la poesia del luogo e del momento. Il resto è stata una lenta discesa aggirando le dune e i fossi mettendo i piedi nelle stesse tracce della mattina, ovviamente nessuno si era avventurato oltre noi. Il tetto della cantoniera e del vicino ristorante su passo di Forca d’Acero ci annunciavano la fine di questa breve ma bella escursione; che è stata breve per la norma, brevissima, solo 6 sono stati i chilometri percorsi, solo 350 i metri di dislivello eppure ci ha tenuti impegnati per cinque ore. Le difficoltà sostenute dovute alla neve soffice, insieme alla meraviglia del bosco magico, l’impegno per scavallare la cresta e gli immensi bellissimi panorami sulle montagne del parco, oggi incredibilmente bianche, ci hanno regalato probabilmente una giornata indimenticabile.